Intrigata dalla sinossi e dalla copertina, mi sono immersa nella lettura di queste storie come si discende in un sogno surreale dalle tinte orrorifiche.
I lettori alla ricerca di personaggi amabili e atmosfere distese, meglio non si avvicinino ad Alfabeto di bambola di Camilla Grudova. Descritta come “l’erede di Angela Carter“, la Grudova propone tredici racconti nei quali costruisce con cura un mondo in cui la disperazione, la violenza e la rovina materiale governano le vite dei singoli personaggi. Qui, gli uomini portano a casa i cadaveri di nani e le donne ne infilano gli organi in salotto, i bambini inventano macchine che proiettano immagini ipnotizzanti sui muri e siedono davanti a loro per anni. Costumi, macchine da cucire e bambole prendono vita, grottescamente animati dalle paure e dalle ossessioni delle persone che li circondano. Questo universo weird, a tratti impassibile, dopo averci cullato con una apparente banalità, sprofonda in surrealismi disturbanti: una sorta di realismo magico distopico e cupo, un’immaginazione variegata ma coerente, un incubo monocromatico non senza tocchi ironici.
Non c’è un orizzonte consolante in queste storie. Sebbene non vengano fornite date o luoghi geografici (le storie si svolgono nel “quartiere” o “nella fabbrica” o, molto spesso, in case e appartamenti di città anonime), l’atmosfera richiama una Londra di recente industrializzazione, dickensiana. Continua a leggere