Damien Hirst, “Treasures from the wreck of the unbelievable” (doppia mostra a Venezia)

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La doppia mostra veneziana di Damien Hirst, Treasures from the wreck of the unbelievable, è un imponente progetto, la cui gestazione è durata un decennio, che non può lasciare indifferenti, sia per l’ambizione senza precedenti di questo labirintico e sorprendente spettacolo, che per la personalità talora discutibile dell’artista o per la franchezza di originalità delle opere.

Tutto questo conta marginalmente, benché tante recensioni nazionali e non si siano concentrate soprattutto sugli ultimi due aspetti, berciando sul valore economico delle opere, non su quello artistico oppure, cosa fondamentale, sul complesso concetto che Hirst vuole rappresentare – facendo così ridere dalla tomba fior fior di artisti da Duchamp in poi.

Il presupposto della mostra è il fittizio ritrovamento nel 2008, al largo della costa africana, di un vasto sito archeologico con un relitto di una nave naufragata. La scoperta ha avvalorato la leggenda di Cif Amotan II, liberto di Antiochia, vissuto tra il I e II secolo d.C., che dopo essere stato affrancato accumulò grandi tesori, in particolare un’inestimabile collezione di oggetti provenienti da ogni parte del mondo antico. Questi mitici cento tesori furono poi caricati sulla nave Apistos per essere trasportati in un nuovo sito creato apposta per ospitarli, ma purtroppo l’imbarcazione affondò e per quasi duemila anni se ne persero le tracce.

La mostra, che inizia con le riprese del recupero subacqueo dei tesori, espone alcune opere com’erano appena ritrovate, ossia coperte di incrostazioni marine, e come si presentano dopo il restauro, nella loro ipotetica forma originaria.

La scelta di Venezia per ospitarla è perfetta: la città che sprofonda nel mare, resistendo e cedendo, antica sede di potere e porto mercantile tra i più autorevoli e ricchi, è il parallelo perfetto dell’Apistos. E la statua della Sirena posta all’apice di Punta della Dogana, rivolta verso il mare, pare proiettare la sua voce verso le acque salmastre con malinconica lascivia, gorgheggiando della città morta la fine futura, gli eccessi passati, le vite obliate famose, in un canto del cigno che attende l’ultima onda.

A me la mostra è piaciuta moltissimo, ho amato lasciarmi travolgere dal senso del meraviglioso (a volte più autentico, altre un po’ kitsch), sorridere di fronte allo scaltro e sottile gioco intellettuale che l’artista ha messo in piedi con questa esposizione.

ingresso mostra Hirst

Credo questa epigrafe sia sibillinamente eloquente di tutto il progetto. E trovo la cosa deliziosa, perché Hirst, per quanto deprecabile per alcune scelte presenti o passate, dimostra di conoscere bene il senso dell’arte, il labile confine tra reale e immaginario – frontiera che può rimescolare l’uno nell’altro, in una farneticante prospettiva a infinito incastro.

Questa è l’arte che si merita il mondo odierno, il mondo dell’apparenza e della post-verità. È l’arte cervellotica ma strabiliante – sì, forse fin troppo, per certi versi –, assolutamente snob, che sussurra il suo senso agli ultimi raminghi della conoscenza e dell’immaginativa, che si prende gioco dell’uomo medio, comune, che ghigna nel vedersi prezzare essendo dichiaratamente ingannevole.

Passeggiamo davanti a questi inestimabili tesori rivelati, realizzati in materiali preziosi, con una dovizia di dettagli, particolari, una cesellatura di ogni minuzia che rivelano una perizia magistrale, una capacità progettuale e di maneggiare la materia non scontata né comune.
Alcune sculture sono più realistiche, altre fantastiche, la maggior parte effettivamente mima o si ispira all’arte antica (egizia, greca, orientale, celtica, mesoamericana, ecc.), ma i riferimenti sono tutto un incrocio tra presente, passato e futuro: ecco allora che si scova la scritta Mattel o Sea World o Made in China, e accanto a un busto anticheggiante, sfilano statue disneyane o di robot.
Il tutto è un mashup implausibile, un teatro dell’assurdo, una beffarda sfida all’intelletto, un accavallarsi di piani fittizi e realistici, tra richiami artistici, letterari, ma anche alla pop culture contemporanea. Tutte le culture generano altre culture, sembra uno dei messaggi, l’arte di qualunque tempo non si genera dal nulla, ma richiama qualcosa di anteriore, sempre più ancestrale nella memoria o nell’immaginativa dell’uomo, fino ad arrivare a chissà dove, a quale abisso di cui si è persa conoscenza.

IMG_20170722_150740_827Il mescolarsi di opere pseudo antiche con rimandi a qualcosa di odierno, crea un divertito senso di straniamento: sembra di balzare da un passato immaginario alla previsione del proprio futuro. compiere un viaggio nello spazio-tempo, come se quel naufragio in realtà non fosse già avvenuto, ma accadrà in qualche ignoto futuro. E allora noi spettatori siamo ad assistere a una mostra (che più che mai ricorda la sua etimologia, da monstrum) di qualcosa che verrà dopo di noi, fuori dalle linee temporali note a causa di una mordace distorsione dello spazio-tempo.
Si sprofonda non negli abissi oceanici, ma in quelli ancor più assoluti della sospensione dell’incredulità, in una beffa arguta, affascinante, finemente cerebrale.

Varcare la soglia dell’esposizione è uscire dal reale sicuro, entrare in una dimensione in cui nulla è scontato – un po’ come viaggiare follemente nel Tardis col Dottore (io l’Apistos in realtà me la figuro proprio così).
Perciò, l’incredibile del titolo è tale perché non esistente, simulato, o perché troppo sbalorditivo, quasi traumatizzante per la psiche umana?

Di sicuro è un progetto che può non piacere, sembrare eccessivo, troppo esibizionista, e lo è anche, ma il gioco tutto artistico e letterario della finzione è pregevole, sublime.
Ci troviamo dinnanzi a un’arte che non è più imitatio naturae, ma sfida se stessa e si auto imita (e auto celebra) – concetto che già coniugò Joris-Karl Huysmans, quando nel celebre À rebours la natura non bastava più all’otium dell’uomo raffinato e colto, ma doveva essere abbellita, imitare l’opera umana, in un circolo insoddisfatto di arte che imita l’arte, vita che diviene arte, tipico dell’uomo dacché ha visto cadere le speranze del positivismo.

In fondo, non è ciò che si chiede all’arte contemporanea?
Che sia viva o morta (questo lo lascio a chi è più competente di me e dibatte sul tema da metà secolo scorso circa in poi), non le si domanda di farci precipitare nelle arguzie intellettive più fini, di giocare con la materia e con lo spettatore, di abbagliarci di maestosità o inquietarci di minimalismo, per essere specchio del nostro oggi?
Il mondo odierno è invivibile, esagerato, superficiale e veloce, vive più di apparenza che di sostanza, allora perché l’arte non dovrebbe mostrarci che dietro tanta pomposità non ci è rimasto nulla, che siamo una maschera che si posa sul niente?

Gli spunti conoscitivi di questa mostra sono tantissimi, quindi direi che non è affatto senza solide basi o inutile. E direi che ci vuole una sorta di genio per spingere il kitsch fino al limite estremo, fino al punto in cui diventa sublime.

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